Circa 2.000 imprese attive, poco più di 31.00 addetti, un fatturato che nel 2010 (ultimo dato disponibile) ha superato i 7,3 miliardi di euro, di cui poco meno della metà realizzato sui mercati esteri. È, questa, a grandi linee, la fotografia del sistema imprenditoriale delle macchine per l’agricoltura contenuta nel Rapporto Agreenculture, realizzato da Fondazione Symbola e Coldiretti presentato nel contesto della Fiera della meccanizzazione agricola di Savigliano. Un settore nel quale l’Italia continua fortunatamente a costituire un punto di riferimento su scala mondiale, seppure in presenza di alcune difficoltà di carattere competitivo che, sommate alle criticità imputabili al contesto economico generale, necessitano di ua riflessione.
IL SISTEMA IMPRENDITORIALE
Imprese e addetti
Facendo riferimento ai dati ufficiali di fonte Eurostat, per l’Italia purtroppo disponibili solo fino al 2010, le imprese attive nella produzione di macchine per l’agricoltura e la silvicoltura sono 1.978, mentre nel 2009 erano 1.994 e nel 2008 oltre duemila. Nonostante la contrazione, l’Italia si conferma il Paese con il numero maggiore di imprese di settore, che rappresentano oltre un quarto del totale registrato in ambito comunitario.
La riduzione del numero di imprese attive nel settore un fenomeno che ha interessato gran parte dei Paesi europei, con riscontri però diversi sul piano occupazionale. Emblematico è il caso dell’Ungheria che nel triennio 2008-2010 ha ridotto il numero di imprese attive da 427 a 163, pur mantenendo quasi gli stessi livelli occupazionali; ne emerge una crescita dimensionale da 13,8 addetti del 2008 a 29,0 del 2010 che è in controtendenza rispetto a quanto accaduto in Italia. Nella Penisola, infatti, si è scesi dai 33.360 del 2008 ai poco più di 31mila del 2010, con una variazione pari a -6,7% mentre il numero medio di addetti è passato da 16,7 addetti a 15,7, risultando strutturalmente inferiore alla media comunitaria (22,7 addetti nel 2010). Anche in altri Paesi come Regno Unito e Germania ad una contrazione delle attività è corrisposto un aumento della dimensione media derivante per lo più da un’intensa attività di fusione e aggregazione imprenditoriale, spesso riconosciuta come via maestra per alimentare i livelli di competitività internazionale.
Si può pertanto affermare che in generale, nonostante gli effetti della crisi, il settore europeo delle macchine agricole sta attraversando una fase di evidente ristrutturazione aziendale votata alla crescita dimensionale ed ascrivibile alla maggiore capacità di sopravvivenza delle imprese più grandi, notoriamente più competitive. L’Italia mostra minor capacità di assecondare tali processi, con tutti i rischi che nell’immediato futuro potranno evidenziarsi.
Fatturato aziendale
A differenza di quanto visto per gli addetti, il 2010 ha rappresentato l’anno della ripresa delle vendite del settore dell’automazione agricola. In Italia, dopo lo shock del 2009, quando la contrazione della domanda internazionale ha provocato una riduzione annua di oltre il 28%, del fatturato di settore, attestatosi a poco più di 6 miliardi di euro, l’anno successivo è stata registrata una crescita che, almeno in parte, ha garantito un parziale recupero del terreno perso. Nel complesso, la riduzione imputabile al periodo 2008-2010 (-13,2%) è risultata sostanzialmente più contenuta di quanto mediamente osservabile all’interno del panorama comunitario (-21,9%; -22,6% per le cinque grandi economie dell’Unione), e ancor più di quanto registrato per Francia (-30,3%) e Germania (-30,6%), principali competitor italiani in termini assoluti. Negli altri Paesi, ad esclusione della piccola Cipro e del quasi stazionario Portogallo (+1,2%), si evidenzia l’ascesa di Romania e Slovenia (rispettivamente +15,8% e +13,3%), favorite da un intenso processo di attrazione di investimenti per via dei minor costi del lavoro e delle condizioni più favorevoli allo svolgimento dell’attività d’impresa.
I dati ufficiali non permettono di arrivare oltre il 2010 per ciò che riguarda l’analisi delle vendite del settore in Europa e in Italia, anche se alcune indicazioni lasciano presupporre come la ripresa sia proseguita anche durante il 2011. Stando alle anticipazioni fornite da Enama, la vendita dei trattori agricoli italiani, colonna portante dell’attività produttiva del settore, anche nel 2011 ha proseguito su un sentiero di evidente sviluppo (da meno di 2 miliardi di euro del 2010 a più di 2,2 miliardi del 2011), spinte da un incremento dell’attività produttiva pari al 12% circa (da 61mila a quasi 68mila unità). Si tratta di una dinamica certamente in controtendenza con quanto osservabile in media nell’intero manifatturiero e nelle attività dedite alla produzione meccanica.
Fatturato per addetto
Nel 2010 il fatturato per addetto ammontava nella Penisola a poco più di 235.000 euro, con una contrazione, per il periodo 2008-2010 del 6,9%, a fronte di una riduzione quasi doppia riferita all’Unione Europea (-13,0%).
Valore aggiunto aziendale
Sempre nel 2010 il valore aggiunto derivante dalle quasi duemila imprese attive sul territorio italiano ha quasi raggiunto 1,5 miliardi di euro. Un risultato in crescita rispetto al 2009 (circa 1,3 miliardi di euro) ma ancora comunque lontano da quanto raggiunto nell’anno precedente gli effetti della crisi internazionale (1.771,5 miliardi di euro).
Anche qui, dunque, in termini di variazione, il 2010 ha permesso un parziale recupero del terreno perso durante l’anno precedente, con una variazione complessiva stimata pari a -17,6% (era del -26,9% nel solo 2009). In questo caso, tuttavia, si evidenzia una perdita di competitività rispetto alla Germania (-14,0%) sostanzialmente confermata per l’intera Unione Europea (-15,1%). Interessante è il caso del Regno Unito dove la profonda ristrutturazione del settore ha ampliato la capacità di competere garantendo al settore una crescita sostanziale della ricchezza prodotta (+39,4%).
Valore aggiunto per addetto
Il valore medio per addetto registrato in Italia, che nel 2008 risultava in linea con la media dell’Unione Europea, è sceso nel 2010 a valori decisamente inferiori (46.892 euro contro 50.171). Il nostro Paese mostra in tal senso una difficoltà crescente a mantenere elevati livelli di competitività. Il Belgio, la Germania, i Paesi Bassi, la Svezia e il Regno Unito, con valori tra i 69mila e i 72mila euro, sfruttano una strutturazione del settore certamente più robusta, come d’altronde visto anche per quanto riguarda la dimensione media delle imprese, il che determina per l’appunto il crescente divario. Proprio in virtù di tale robustezza, negli anni di maggiore difficoltà, tutti questi Paesi hanno sperimentato performance migliori di quelle della Penisola.
Capacità d’investimento
Una delle criticità che interessano l’economia italiana è certamente ascrivibile alla difficoltà nell’attivare investimenti. Nel settore delle macchine per l’agricoltura, tuttavia, si evidenzia come, nonostante la congiuntura avversa, il valore complessivo delle somme stanziate al miglioramento delle produzioni (acquisto di terreni e fabbricati, macchine, strumenti e nuovi processi innovativi), pari a 226,4 milioni di euro nel 2010. sia maggiore di quanto osservabile negli altri Paesi.
Anche nel confronto con la Germania (174,8 milioni di euro), si evidenzia un differenziale positivo che è da considerare ancor più ottimisticamente in relazione alla minor capacità finanziaria e creditizia mediamente associabile alle imprese italiane. Una delle matrici di questa mole di investimenti, in verità in contrazione nel periodo considerato, riguarda l’adozione di strumenti legati all’eco-efficienza; non è un caso se circa i due terzi degli impegni finanziari attivati in tal senso sono legati a macchine e strumentazioni. Una mole così ingente di somme stanziate al miglioramento dei processi posiziona l’Italia al terzo posto tra i Paesi a maggior spesa per addetto finalizzata ad investimenti (7.237 euro, dietro al Belgio e Regno Unito).
Le province più specializzate
Uno sguardo all’interno dei confini della Penisola sottolinea un’evidente concentrazione territoriale di attività imprenditoriali localizzate in realtà meno urbanizzate del Centro-Nord, dove la storia ha condotto allo sviluppo settoriale sulla scia dell’elevata domanda locale alimentata dal settore agricolo.
In termini di imprese la provincia che conta il maggior numero di unità locali (per unità locale si intende l’impianto operativo o amministrativo-gestionale ubicato in luogo diverso da quello della sede, nel quale l’impresa esercita stabilmente una o più attività economiche) è Reggio Emilia, già specializzata più in generale per l’intero complesso di attività ricollegabili alla meccanica. Altre realtà di rilievo sono Modena, Brescia e Padova, tutte con oltre 100 unità locali all’attivo.
Gli indici di localizzazione più elevati (che descrivono una specializzazione territoriale nel settore), oltre alla già citata Reggio Emilia, sono da associare a Mantova (89 unità locali per un indice pari a 551,6) e Cuneo (95 per un indice pari a 407,6). Anche Modena e Cremona presentano valori elevati e comunque più che tripli a quelli medi nazionali.
In termini di addetti, oltre all’area emiliana di Reggio e Modena (rispettivamente prima e seconda), si evidenzia l’ascesa della provincia anconetana, dove grazie a 1.269 addetti, si registra un indice di localizzazione pari a 424,8. Interessante notare come tra le province meridionali, solo Lecce (649 addetti per un indice pari a 235,8), Isernia (81 per 226,7) e Chieti (375 addetti, 178,9) riescono a posizionarsi tra le prime venti province italiane in termini di specializzazione.
Gli scambi con l’estero
Il 2009, anno della crisi internazionale ha decretato una ricomposizione della domanda a favore di quella estera; mentre prima del 2009 circa i due terzi della produzione italiana erano destinata al mercato interno (il 65,6%), con la radicalizzazione degli effetti della crisi, la domanda estera ha ripreso a crescere tant’è vero che nel 2010 la domanda interna incideva per il 50,3% e quella estera per il residuale 49,7% (stime Fondazione Symbola su dati Istat e Eurostat).
Le quote di mercato
Nonostante negli ultimi due anni la crescita dell’export sia stata pari al 28,8% (per l’import la variazione è stata analoga in termini percentuali ma su valori assoluti decisamente più bassi), è proseguita l’erosione del livello di competitività delle imprese italiane, sotto la spinta della pressione esercitata dalle grandi economie in via di sviluppo.
Stando alla ricostruzione effettuata dall’Istituto per il Commercio Estero, a partire dai dati di fonte Onu-Comtrade, nel decennio 2002-2011 l’incidenza percentuale delle importazioni mondiali di macchine per l’agricoltura e la silvicoltura “made in Italy” è risultata in contrazione di 3,5 punti percentuali (dall’11,4% al 7,9%). Una contrazione che non è frutto delle performance del 2009 quanto dei risultati dell’anno successivo. Ciò potrebbe celare un riposizionamento competitivo delle imprese che ha origine proprio dalle difficoltà emerse con la crisi; non è un caso se dall’anno successivo, pur se in un contesto di riduzione di competitività, il trend di riduzione abbia iniziato a moderarsi, lasciando presagire spiragli di ottimismo per il futuro.
La contrazione delle quote di mercato dell’Italia, pur se su dinamiche differenti, trova sintonia nelle altre economie europee: il Regno unito ha più che dimezzato la propria quota di mercato settoriale (dal 7,5% al 3,7%) mentre per tutti gli altri principali Paesi dell’Unione la riduzione è stata decisamente più modesta. in Germania, da un’incidenza delle vendite su scala globale pari al 20,1% nell’anno dell’introduzione della moneta unica, si è arrivati ad un valore pari al 18,6%; in Francia, dal 6,0% al 5,7%; nei Paesi Bassi, dopo un’iniziale riduzione, la competitività è apparsa addirittura in crescita, tornando nel 2011 su valori analoghi a quelli precedenti l’introduzione dell’euro.
Gli Stati Uniti, nonostante la crisi manifatturiera considerata da molti analisti come strutturale, proprio nel piccolo settore dell’automazione agricola hanno trovato linfa competitiva, accrescendo il proprio market share di quasi due punti percentuali negli ultimi dieci anni (dal 15,9% al 17,6%), insidiando così la leadership tedesca.
A conti fatti l’Italia manifesta comunque un’elevata capacità competitiva, mantenendo ancora saldamente la terza posizione in termini di quote di mercato, seguita dalla Cina, unica realtà capace nel breve e medio periodo di contrastare la qualità italiana.
Le graduatorie provinciali
La provincia di Modena, capace attraverso il suo sistema imprenditoriale di ottenere la leadership in termini di export sia nel 1991 che nel 2001, con l’introduzione dell’euro ha vissuto una vera e propria crisi di competitività che ha quasi dimezzato il valore delle vendite all’estero (poco più di 194 milioni di euro).
Le province di Bergamo e Reggio Emilia, a loro volta, hanno manifestato una crescita più continuativa delle vendite oltre confine, riuscendo a mantenere le primissime posizioni; interessante è il caso di Reggio Emilia, ad oggi principale nodo territoriale di competitività della Penisola, con oltre 450 milioni di euro esportati. Ancona, sfruttando lo sviluppo adriatico degli anni Novanta, in pochi anni si è affermata come uno dei più importanti territori di riconoscimento delle qualità italiane nel settore (287 milioni di euro). In generale, è possibile individuare nell’asse emiliano (Reggio Emilia, Modena, Bologna e Parma), nella Lombardia orientale (Bergamo, Brescia e Mantova) e nel cuore del Veneto (Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo) i principali poli competitivi italiani.
Anche in questo caso, in linea con quanto osservato per le specializzazioni produttive, la presenza meridionale è assai modesta, con la sola Lecce capace di posizionarsi, nel 2011, tra le prime venti province per valore delle esportazioni (ventesima con poco più di 53 milioni di euro); anche il centro sconta una scarsa capacità competitiva sui mercati internazionali, contribuendo alla graduatoria delle principali realtà provinciali della Penisola con la sola Perugia (diciannovesima nel 2011 con poco meno di 57 milioni di euro). Ciò prefigura una sostanziale identità settentrionale con il successo italiano del settore, il che è un risultato in linea con quanto osservabile nelle altre tipologie produttive della meccanica.
L’EVOLUZIONE GREEN DELLA FILIERA
Volendo fare il quadro esaustivo delle spinte ecologiche che hanno interessato il settore delle macchine per l’agricoltura, si può elencare; in primo luogo, la crescita dei prezzi energetici, che ha imposto un ripensamento delle linee produttive al fine di renderle più efficienti in termini di consumi; in seconda istanza, la crescente sensibilità dei produttori dell’agroalimentare al tema, sostenuta dalla domanda biologica e dall’affinamento e consapevolezza dei gusti dei consumatori; infine, le normative introdotte in ambito comunitario e nazionale che hanno giocato, e giocano ancora oggi, un ruolo cruciale nell’indirizzare il sistema verso una maggiore sostenibilità.
Proprio sulle normative hanno ovviamente un notevole impatto i risultati derivanti dall’introduzione delle nuove direttive contenute nella Pac, previste in vigore a partire dal 2014. A ciò si aggiungano le evoluzioni del programma sperimentale Etv (Environmental Technology Verification), che destina a rimborso parziale dei costi sostenuti dalle imprese che sviluppano tecnologie ambientali innovative su temi delicati quali quello del trattamento e monitoraggio delle acque, dei rifiuti e delle tecnologie energetiche.
L’attenzione verso l’analisi dei processi di evoluzione dell’attenzione all’ambiente è forse la matrice principale con cui la Fondazione Symbola approccia alle tematiche d’impresa; nel tempo ciò ha condotto alla strutturazione di un approccio analitico che definisce i processi dei settori produttivi secondo gli Input utilizzati, i Processi attivati e l’Output prodotto (da cui l’acronimo Ipo). Il livello di dettaglio che interessa il settore delle macchine agricole nella classificazione produttiva internazionale non permette di utilizzare tale metodologia per via della mancanza di dati ed informazioni statistiche. Ciò non toglie la possibilità, per ognuna delle fasi industriali, di individuare delle informazioni che orientino un giudizio di massima sull’evoluzione green del settore.
I consumi elettrici
L’input produttivo che senza dubbio ha maggiore attinenza con l’analisi green è senza dubbio quello energetico, e più specificatamente elettrico. A partire dai dati Eurostat, è possibile delineare, negli ultimi tre anni, un’evidente miglioramento dell’intensità di consumo. Gli acquisti di energia elettrica contabilizzati per unità di prodotto, infatti, certo spinti anche dal raffreddamento parziale dei prezzi petroliferi avvenuto tra il 2009 e il 2010 e solo successivamente disatteso, si sono ridotti di circa il 40%. Un risultato fuori dalle linee evolutive europee (solo Romania e Lettonia hanno fatto di meglio anche se la comparabilità con questi Paesi è certamente dubbia) che trova solo nei Paesi Bassi andamento analogo.
Le emissioni atmosferiche
Partendo dai dati relativi alla meccanica e all’industria manifatturiera, unitamente alle informazioni ambientali a disposizione per il settore delle macchine per l’agricoltura e la silvicoltura, è possibile ricostruire, per gli anni 2006 e 2008 (a quest’anno si fermano le informazioni della statistica ufficiale relativamente alle emissioni ambientali del conto satellite Namea), il consumo per unità di prodotto per i principali agenti atmosferici.
In relazione all’anidride carbonica, che da sola rappresenta la maggior parte delle emissioni prodotte dall’industria manifatturiera, è stato nello specifico stimata l’emissione di Co2 per unità di prodotto. Dalla stima effettuata risulta chiaramente come il settore sia già strutturalmente capace di limitare l’impatto inquinante, soprattutto nel confronto con la media riconducibile all’industria manifatturiera (23,3 tonnellate ogni milione di euro prodotto contro 146,1). Nel complesso, l’automazione agricola ha un potenziale emissivo leggermente inferiore a quello della meccanica complessivamente considerata. Come quest’ultima e su tassi sostanzialmente analoghi, poi, la dinamica di riduzione del potenziale stesso sembra ridursi negli anni immediatamente precedenti la crisi; ogni milione di euro prodotto nel 2006 corrispondeva infatti a 26,6 tonnellate di Co2; oggi tale valore risulta pari a 23,3.
I rifiuti
Partendo dai dati disponibili, specificatamente riferiti alle elaborazioni delle dichiarazioni Mud ((Modello Unico di Dichiarazione ambientale) attivate da Ecocerved e già utilizzate all’interno del rapporto GreenItaly, è possibile ricostruire per l’industria delle macchine agricole e per la silvicoltura, nonché per la meccanica e l’intera manifattura, sia il valore complessivo di tonnellate di rifiuti prodotti, sia l’incidenza per addetto.
Rispetto a quanto visto per gli input energetici, il potenziale inquinante prodotto dai rifiuti delle attività di produzione di macchine agricole risulta sensibilmente inferiore a quello dei settori di sovra-appartenenza. Ciò vale sia in termini di livelli (per ogni addetto si produce una tonnellata di rifiuti contro le due della meccanica e le oltre 16 dell’industria complessivamente considerata), sia in termini di dinamiche (fatto 100 il valore per addetto al 2008, lo stesso valore al 2010 ha un indice pari a 46,8, inferiore a quello della meccanica, pari a 68,2, e dell’industria, 88,2).
Fonte: Agreenculture, Nota di analisi sul settore delle macchine per l’agricoltura, Prima edizione marzo 2013, Fondazione Symbola e Coldiretti